LA PECORA NERA

nacque un giorno, nel gregge, una pecora nera.
«beh?!» esclamò la pecora madre, ma non era uno di quei beeeh tipici del verso delle pecore, bensì un beh come per dire cosa avete da guardare?! e si coccolava il suo agnellino nero nero, che ogni scarafone è bello a mamma sua anche tra gli ovini.
«beh...», borbottò qualche pecora anziana, poco propensa alle novità e ancor meno avvezza alle trasgressioni. e anche per lei non era un beeeh qualsiasi, ma nemmeno un beh interrogativo, bensì un beh di quelli che lasciano intendere che c’è qualcosa che non va.
«beh!» belarono in coro le altre pecore, ancorché talmente fuori ritmo che un direttore d’orchestra, se fosse passato di lì per caso, sarebbe scappato a gambe levate. qui, oltretutto, non si riusciva a distinguere tra i beh esclamati solo per andar dietro a quel che aveva borbottato la vecchia, i beh interrogativi come per dire non ci ho capito nulla e i beeeh tipici di chi va dietro al gregge.
«non è nero, è solo scuro». provò a specificare qualcuna.
«forse è perché è nato di notte, al buio, poveretto – bofonchiò un’altra – certamente al primo sole si rischiarirà.» come se per le pecore l’abbronzatura funzionasse al contrario. beh, mah, sarà...
«no, no, è proprio nero!» ribadì la pecora anziana.
«sì, sì, è proprio nero!» concordò mamma pecora ed è strano come a volte, con la medesima frase, si può intendere due cose diametralmente opposte. già, perché per lei l’agnellino oltre che nero era bello, profumato, con il musetto simpatico e il codino a batuffolo. cosa chiedere di più?
non passò molto tempo che le cose furono più chiare. anzi, restarono scure, ma proprio perché erano scure, furono chiare per tutti. chiaro?!
l’agnello nero, nero restò. del resto nero lo era davvero e non c’era motivo per cui la natura dovesse sbiancarlo all’improvviso. il gregge, però, rimaneva bianco e diventava molto difficile non notare la differenza.
ci furono riunioni su riunioni, consulti su consulti e si finì per cacciare la pecora nera dal gregge e tanti saluti. a scanso di equivoci si cacciò anche la pecora madre, onde evitare che partorisse altri agnelli strani così. giammai! e il caso fu chiuso.
anzi no. nel gregge, rimasto così bianco, che più bianco non si può, cominciò a serpeggiare una certa aria di sospetto. fino ad allora tutti gli sguardi erano per quell’oscuro, impertinente diverso e non si pensava ad altro, ma ora quasi se ne sentiva la mancanza, al punto che le pecore cominciarono a cercare, una nell’altra, piccoli o grandi segni di diversità. o di distinzione.
«lei ha la coda un po’ più lunga delle altre!» cacciata.
«tu hai il belato cavernicolo!» cacciata.
«quella ha l’alito che sa di camomilla!» cacciata anche lei.
«l’altra ha le zampe a ics!» via, via!
il giochino diventò per alcune quasi divertente e ci fu pure qualche pecora che si sentì esclusa, a non avere un segno distintivo che la rendesse unica. allora:
«io ho il nasino all’insù!» confessò un’agnellina timida e ingenua, che fu cacciata all’istante, senza nemmeno pensarci un minuto.
fu mandata via la più alta e anche la più bassa, la più leggera e la più pesante, la più grassa e la più magra, quella con la lana più lunga e quella con le orecchie più corte.
andò a finire che una pecora di media statura, con il tono né alto né basso, non pesante ma nemmeno leggera, né bella né brutta... una pecora qualsiasi, insomma, se ne rimase sola soletta, avendo cacciato le compagne una dopo l’altra. era davvero una pecora come ce ne sono mille altre, ma essendo l’unica si sentiva importante. Infatti, quando qualcuno si avvicinò al recinto, non esitò a mettersi in bella mostra, sorridendo anche un po’.
era il macellaio del paese, giunto per scegliere un capo per l’arrosto. ma non era rimasto proprio niente da scegliere: acchiappò quell’unica pecora rimasta, se la caricò sulle spalle e non ti dico poi cosa fece, perché lo hai capito di sicuro.
non so se l’arrosto venne bene, quella sera – io certo non mangio carne di pecora e d’agnello... – ma sono certo che tutte le altre pecorelle, diverse una dall’altra, ognuna chissà dove, sono ancora lì che belano tranquille. beh, almeno lo spero.

questo racconto è apparso sul sito linkiesta.it il 25 agosto 2013